Valerio Magrelli, uno dei nostri maggiori poeti, ci sorprende scegliendo di dare la propria voce a un grande classico del teatro e della poesia. Commedia dal contenuto profondamente tragico, come riconobbe Goethe che si chiedeva «se mai un poeta avesse rappresentato il proprio animo in modo più perfetto», Il misantropo di Molière andò in scena la prima volta nel 1666, con le musiche di Jean-Baptiste Lully. Nella vicenda, suddivisa in cinque atti e narrata in 1808 versi alessandrini in rima baciata, spicca Alceste, un «innamorato atrabiliare», figura autobiografica nel suo moralismo severo e di ispirazione giansenista. Ecco dunque il protagonista alle prese con un sedicente poeta e con l'ipocrisia dei cortigiani - in un contesto sociale che, in fondo, potrebbe non risultare estraneo a tanti aspetti del nostro presente. Ed ecco poi l'oggetto del suo geloso amore, Célimène, donna vivace e brillante ma non certo intransigente rispetto alla dimensione di ipocrita leggerezza in cui è immersa. Affascinato dalla letterarietà del testo, considerato la pièce meno teatrale di Molière e la più congeniale alla lettura, Valerio Magrelli - lo dichiara nell'Apologia della rima - ha voluto riproporre nella sua versione l'uso del metro tradizionale e, appunto, della rima, quel «miracolo acustico di incontenibile vitalità capace di tenere in sua "mercé" un'intera poesia». Soluzione troppo spesso affrettatamente considerata frutto di un atteggiamento antiquato, quasi alla stregua di un falso, di una contraffazione, la rima ha consentito a Magrelli di mettere in atto una sorta di sfida strutturale, quella di lavorare à contrainte mirando a realizzare nel corpo di un'altra lingua, la nostra lingua dell'oggi, le stesse costruzioni e costrizioni formali presenti in quella di partenza. L'esito felicissimo dell'operazione ci affida un capolavoro che dopo aver attraversato i secoli risplende nuovo in virtù di una personale rilettura e di una altrettanto accurata riscrittura.